Arquata del Tronto

Il territorio del comune di Arquata del Tronto, prevalentemente montano, è situato, unico in Italia, all’interno di due Parchi Nazionali, quello dei Monti Sibillini a nord e quello del Gran Sasso-Monti della Laga a sud.

L’ubicazione strategica (è l’ultimo lembo delle Marche sulla Salaria a confine con le regioni Umbria, Lazio, Abruzzo)e le notevoli bellezze storiche ed ambientali, fanno di Arquata uno dei centri più interessanti e suggestivi dell’Appennino Centrale.

In particolare i visitatori possono ammirare la Rocca Medioevale e il Crocifisso in legno policromo (XII e XIII sec.) ad Arquata, la chiesa cinquecentesca a pianta ottagonale della Madonna del Sole a Capodacqua, una riproduzione dall’originale, realizzata nel sec. XVII, della Sacra Sindone nella chiesa di San Francesco a Borgo, la bandiera che la tradizione vuole essere stata strappata ai Turchi da arquatani al soldo di Marcantonio Colonna durante la battaglia di Lepanto (1571) nella chiesa di Sant’Agata a Spelonga.

Possibilità di escursioni e pratica dello sci in località Forca Canapine.
Tra storia e folklore: la rievocazione storica della battaglia di Lepanto a Spelonga (mese di agosto), il corteo e banchetto in costume medioevale a ricordo del soggiorno della Regina Giovanna D’Angiò (Arquata 19 agosto); la leggenda delle Fate in frazione Pretare.

Dell’origine di Arquata non si hanno notizie certe: pare tuttavia che sia stata fondata da un folto nucleo di Sabini che, tra il sec. X e il sec. VI a.C., passarono attraverso la sua vallata e, per voto di primavera sacra (voto vere sacro), si stabilirono su queste terre.

Alcuni studiosi (Castelli, Agostini) la identificano con l’antica Surpicanum, prima centro sabino e poi avamposto romano di notevole importanza tra le due Statio della Tavola Peutingeriana: Vicus Ad Martis e Ad Aquas (difatti un intervento di ristrutturazione della strada consolare in età augustea è attestato dalla pietra miliare attualmente conservata nella frazione Trisungo).

Altri echi della presenza romana sono rappresentati dal passaggio di Annibale e dall’identificazione della frazione di Tufo con l’antica Vicus ad Martis, probabile residenza estiva della famiglia Flavia e località di nascita degli imperatori romani Vespasiano e Tito.

Le prime notizie documentate sulla terra d’Arquata si trovano nel periodo dell’alto medioevo quando nel VI secolo era definita come Terra Summantina. Ulteriore e successivo riferimento storico è fornito dall’invasione del popolo longobardo che giunse fino a Spelonga dove forse esisteva un castrum.

Ricompare la citazione della terra d’Arquata nella cronaca del viaggio intrapreso da Carlo Magno che, nell’800, attraversò questi luoghi per recarsi a Roma in occasione della sua incoronazione.

A partire dall’XI° sec. l’autonomia Comunale di Arquata si mantenne e si rafforzò nel tempo.

Fu conservata fino al XV° sec. quando gli abitanti di Norcia, che fino a quel momento l’aveva contesa ad Ascoli, ottennero la Rocca (1492) per tutelarsi dalla mire espansionistiche del Comune Ascolano.

Nel corso di tutto il sec. XV, infatti, Arquata e la sua Rocca furono protagoniste di furibonde lotte tra ascolani e i norcini per il possesso del Comune, che rimarrà comunque legato a Norcia fino al 1554, quando con le nomine papali dei pretori e dei castellani tramontò definitivamente ogni autonomia locale.

Sempre in questo periodo va ricordata la presenza, nella Rocca di Arquata, della Regina del Regno di Napoli Giovanna d’Angiò, che vi soggiornò dal 1420 al 1435, dopo essere stata incoronata dal Pontefice Martino V.

Effettivamente in quegli anni Arquata costituiva il confine settentrionale del Regno di Napoli e una fortezza come la Rocca non poteva che avere un’importanza di prim’ordine per la sua posizione strategica.

Successivamente, venendo Arquata a far parte dello Stato Pontificio, essendo sempre al confine dello stato stesso, vide accresciuta notevolmente la sua importanza: fu per questo che i pontefici ebbero sempre cura di mantenere in perfetta efficienza la Rocca, accordando ad Arquata importanti privilegi, tra cui quello di esigere il “passo”, cioè il pedaggio, da tutti coloro che transitavano sulla Salaria.

Da segnalare anche la partecipazione di un consistente numero di abitanti della frazione Spelonga, nel 1571, alla più grande battaglia navale di tutti i tempi: la battaglia di Lepanto.

Così come nei secoli precedenti, anche in quelli a venire il territorio di Arquata fu assai conteso a causa della sua favorevolissima posizione strategica: da tempi immemori, infatti, la sua fortezza presidiava alcune fra le vie di comunicazione più importanti dell’Italia Centrale: in particolare la via Salaria, che da Roma arrivava fino all’Adriatico.

Con l’invasione napoleonica la Rocca conobbe un ulteriore momento di forte rilevanza: fu infatti tolta alla giurisdizione di Norcia per essere assoggettata a Spoleto, capoluogo del Dipartimento del Trasimeno.

Divenne allora capoluogo di cantone: in quel periodo fu restaurata la Rocca e provvista di casematte e piazzole d’artiglieria; le fu assegnata una guarnigione permanente e venne dichiarata, con le rocche di Spoleto e Perugia, il terzo fortilizio del Dipartimento.

Caduto Napoleone, il governo pontificio della Restaurazione tolse Arquata all’Umbria e la incorporò nella delegazione di Ascoli Piceno, della cui Giurisdizione Pretoriale entrò a far parte nel 1832, e di cui fu nominata Governo nel distretto di Ascoli stessa.

Da segnalare il passaggio di Giuseppe Garibaldi che, “traendo alla volta di Roma” (come afferma la lapide in suo onore nell’omonima via) pernottò ad Arquata del Tronto nel 1849, ospite della famiglia Ambrosi.

LA ROCCA

Il Castello della Rocca sorge su uno sperone roccioso situato poco più a nord dell’abitato.

La caratteristica di Arquata, di essere storicamente zona di confine fa sì che attorno al sec. XI-XII si desse inizio alla fortificazione del colle e quindi alla realizzazione del castello.

Giovanna II di Napoli vi avrebbe soggiornato dal 1420 al 1435, dopo essere stata incoronata regina dal Pontefice Martino V. La tradizione vuole che il fantasma della sovrana si aggiri ancora oggi fra gli spalti del maniero.

L’insieme delle strutture edilizie che forma la Rocca, ha subito nel corso degli anni una serie di modifiche e di ampliamenti funzionali. L’attuale castello è il frutto di continui rimaneggiamenti protrattisi fino a tutto il XV secolo.

Fu restaurato negli anni ’20 e poi ha subito, più di recente, nuovi interventi.
Il primo elemento edificato sul colle fu probabilmente il torrione, di pianta esagonale – scarpato e coronato da caditoie e merli – alto circa 12 metri e situato allo spigolo sud-est.

Collegata al torrione esagonale doveva esserci la cinta muraria (in parte tuttora esistente), che sviluppandosi verso nord per circa 70 m. chiudeva l’unico lato scoperto del colle, il percorso che collegava il torrione al paese era situato – come lo è attualmente – sul lato orientale del promontorio.

Tra il XIV e il XV sec. si realizzò la torre nord, a base quadrata di 7×7 m. con una altezza di 24 metri. La torre, elemento imponente nella fortificazione, si raccordava verso sud con il torrione esagonale mediante una doppia cinta muraria – dotata di apparato aggettante, con piombatoi, e il cammino di ronda sostenuto da archetti – che delimitava un grande spazio interno di forma rettangolare delle dimensioni di m. 21×24. All’interno di questo piazzale vi dovevano essere diverse costruzioni che consentivano a decine di persone di poter abitare per mesi la Rocca.

Nel corso di tutto il sec. XV Arquata e la sua Rocca, furono protagoniste di furibonde lotte tra ascolani e i norcini per il possesso del comune, che rimarrà comunque legato a Norcia fino al 1554, quando con le nomine papali dei pretori e dei castellani tramontò definitivamente ogni autonomia locale.

L’ultimo corpo di fabbrica che si realizza nella Rocca, è un torrione circolare del diametro di 10 metri, situato nello spigolo sud-ovest, con ampia scarpatura, ulteriormente difeso da una controscarpa speronata.

Questo torrione, che raggiungeva un’altezza di 12 m., era al suo interno completamente costipato di terra e accoglieva a livello della merlatura nell’ampio terrazzamento, pezzi di artiglieria.

Del torrione circolare oggi rimangono solamente alcune murature di fondazione, riportate alla luce dai recenti lavori di restauro.

Il Crocifisso del SS. Salvatore

Ci piace pensare che osservatore di tutte le vicende arquatane fu il Crocifisso ligneo che al giorno d’oggi è ancora gelosamente conservato nella Chiesa dell’Annunziata di Arquata.

Tale pregevolissimo Crocifisso duecentesco fu intagliato e dipinto da due monaci benedettini: i fratres Raniero e Berardo che hanno lasciato alla base dell’opera i propri nomi.

Il Crocifisso proviene dalla Chiesa di San Salvatore di Sotto di Ascoli Piceno dove venne trafugato nel 1680 da un manipolo di arquatani nel corso di una delle tante lotte ingaggiate con gli ascolani.

Si tratta di un’opera singolare in cui l’intervento dell’intagliatore si limita a fornire l’essenziale supporto fisiognomico all’accurato e pregevole rivestimento pittorico, dalle linee nitidamente modulate e dal cromatismo denso, acceso e vigoroso.

Un tale trattamento di forme si rifà ad una tradizione altamente prestigiosa e precisamente alla corrente pittorica che ebbe il suo sviluppo a Spoleto tra il sec. XII° e XIII°.

La Sindone di Arquata

Su una pergamena, di cui dispone lo studioso e ricercatore Don Adalberto Bucciarelli, datata 1° Maggio 1655, si dice che su petizione del vescovo Giovanni Paolo Bucciarelli ed alla presenza di una commissione appositamente incaricata, un lenzuolo di lino di eguale misura é stato fatto combaciare con il lenzuolo della Sacra Sindone e che, a seguito di questa operazione, é rimasta impressa l’immagine del tutto simile all’originale.

Non si fa però menzione del sistema usato per ottenere la riproduzione.
Una lapide in marmo commemorativa del citato vescovo Bucciarelli, posta dal fratello Massimo, osservante la regola francescana, si trova all’interno della chiesa di S. Francesco e ricorda, tra gli altri meriti, l’incarico del suddetto come segretario presso il cardinale Federico Borromeo (il cardinale dei Promessi Sposi).

Ora va ricordato che vicino alla lapide si trovano un grosso altare in legno con una tela raffigurante S. Carlo Borromeo (da notare il legame con Federico Borromeo) inginocchiato dinanzi ad un’altare, ed ancora più in alto una tela più piccola anch’essa del tardo ‘500, raffigurante Gesù che osserva un lenzuolo disteso. Questi due dipinti dimostrano lo stretto legame esistente fra la famiglia Borromeo e la Sacra Sindone.

“Anno domini 1578: Emanuele Filiberto di Savoia, tornato in possesso delle sue terre, aveva spostato nel 1562 la capitale a Torino, ma la sindone rimane a Chambery ancora sedici anni.

Nel 1578 il Duca decide di trasferire la reliquia. L’occasione è eccezionale: S. Carlo Borromeo vuole sciogliere il voto fatto durante la pestilenza di Milano, di recarsi in pellegrinaggio a Chambery.

Fa sapere ad Emanuele Filiberto le sue intenzioni ed il Duca, con molto tatto, per abbreviare il viaggio dell’illustre prelato, già in odore di santità, dispone che la reliquia venga portata a Torino. Intanto S. Carlo muova da Milano a piedi, fatto segno di commovente omaggio lungo tutto il percorso.

Il viaggio da Milano a Torino dura quattro giorni, S.Carlo prega davanti alla reliquia, quindi segue l’ostensione che dura quaranta ore.

Per commemorare l’avvenimento Emanuele Filiberto fa coniare una medaglia speciale”.

Il clero locale stesso sapeva poco sulla presenza della reliquia e forse ciò è conseguente al fatto che questa ha interessato per secoli i soli francescani del convento, che ne erano gelosi custodi.

La tradizione orale tramanda comunque, che l’estratto sia stato voluto al fine di avere una Sindone di proprietà ecclesiastica, in quanto quella di Torino apparteneva ai Savoia e che essa doveva forse essere custodita in posto riservato, periferico e sicuro.

Attualmente la Sindone è conservata nella chiesa di S. Francesco e custodita in una teca, con davanti cento lumi, tanti quanti quelli che, secondo la leggenda, accompagnavano la Sindone durante le processioni durante carestie, siccità e guerre.

La Sindone di Arquata non è una copia ma un estratto dall’originale e perciò, anche se infinitesima, una parte del sangue di Gesù è in essa riposta e questo, per chi crede, costituisce motivo di profonda riflessione e meditazione.

Per gli altri, il prezioso documento, così strettamente legato alla cultura del paese e a famosi personaggi del passato non può non rappresentare un fatto meraviglioso.

La Chiesa della Madonna delle Grazie

Il borgo di Trisungo si allunga ai bordi della vecchia consolare, sulla riva destra del fiume Tronto.

Nel XVI secolo esso era già sviluppato e la vecchia chiesa parrocchiale di San Giacomo non era più sufficiente per le esigenze della popolazione divenuta numerosa. Fu per questo motivo che le 25 famiglie Petrucci (senz’altro il cognome più diffuso in zona!) residenti nel villaggio inviarono una petizione ai canonici di San Giovanni in Laterano per avere il permesso di costruire un nuovo edificio religioso al di qua del fiume.

L’edificio, ad una sola navata e col tetto a capanna, presenta un portale del sec. XVI, con elementi quattrocenteschi. Il bel campanile, dal tetto aguzzo, è costruito, come il portale, in pietra arenaria locale. La chiesa fu decorata con pitture murali e con un altare in pietra arenaria, dedicato alla Madonna delle Grazie. Nel 1832 sulla parete di sinistra fu aperta una nicchia per ospitare una tomba gentilizia; successivamente un’altra nicchia fu aperta per ospitare l’altare ligneo dedicato alla Madonna Addolorata e al Cristo Morto.

La Chiesa fu restaurata nel 1932 e furono rinvenuti allora sette affreschi, di autori diversi, della fine del sec. XVI e del successivo.

Il più interessante , oltre ovviamente alla Madonna in Trono con Bambino del Ricci, è quello situato al centro della parete destra, raffigurante Sant’Antonio abate in atteggiamento benedicente, riconoscibile da una serie di elementi. In primo luogo, il tau sulla pellegrina gialla, emblema che nel Medioevo identificava il santo eremita; poi, dalla campanella sul pastorale e, infine, dal muso del porco che fa capolino in basso.

Sullo sfondo, un paesaggio agreste con uccelli e greggi di ovini governati da pastori e, in alto a destra, una chiesa (probabilmente quella di San Giacomo, prima che fosse portata via da una piena del Tronto). Ai lati, due candelieri e, in basso, sotto la cornice, la scritta:

TEMPORE REVENNI PIETRAGNILI PETRUTTII

Sempre riguardo Trisungo va menzionata la casa più antica del borgo, risalente al ‘500, situata in Rione Ponte.

Essa presenta sul prospetto interessanti particolari, tra i quali una civetta (di valore apotropaico) che regge l’architrave, il volto alato di un angelo su un altro architrave, una nicchia affrescata sopra la porta d’ingresso e uno scudo murato, con incisa la data 1515.

La Chiesa della Madonna della Neve

Nei pressi del cimitero di Faete, situata in una splendida posizione panoramica, sorge la chiesa della Madonna della Neve.

Essa si mostra al visitatore all’improvviso, dopo un breve percorso aperto all’interno di un fitto bosco di castagni.

Proprio il fatto che si presenti nitida come un’epifania, fa venire in mente quanto scritto dal giornalista Luca Villoresi:
“Certe chiesette semiabbandonate circonfuse da un fascino che risale all’anno mille… i piccoli cimiteri, eredi di una storia e di una suggestione ancora direttamente collegata alla natura circostante.

Gli antichi non avevano la nostra idea del paesaggio. Ma attenti agli spiriti connaturati alle piante, alle rocce, allo scorrere dell’acqua e al volo degli uccelli, individuavano in certi luoghi che oggi definiamo panoramici … una sintesi, una concentrazione di forze.

Lì erano sorti templi, altari, aree sacre, poi riciclati dalle chiese e dai cimiteri cristiani” .
Le chiese o, meglio, le cappelle dedicate alla Madonna della Neve erano poste nei pressi delle neviere o nelle località di “raccolta” della neve per usi diversi (per esempio, la conservazione degli alimenti).

La chiesetta, la cui semplice architettura è arricchita da un vasto portico sul fronte dell’edificio, coperto da un tetto a due capriate a vista. L’interno, un’aula semplice ma piena di fascino, conserva affreschi del sec. XV, alla maniera dell’Alemanno e di Panfilo da Spoleto.

Sul lato sinistro della parete di fondo, una rappresentazione dell’Annunciazione con l’Arcangelo Gabriele.

Al centro, sopra l’altare e sotto un Padreterno benedicente, una grossa nicchia affrescata con il trionfo della Madonna con il bambino e angeli in volo. Sulla parete laterale dell’incavo, San Sebastiano trafitto e, a destra, San Rocco, dipinto secondo l’iconografia classica; in alto, un Agnus Dei.

La Chiesa di Sant’Agata

Delle frazioni di Arquata, Spelonga è quella con la popolazione più numerosa e che, più delle altre, ha mantenuto il senso di appartenenza al territorio: basti pensare alla grande festa (la Festa Bella) che, ogni tre anni, si ripete nella piazza del paese, con grande partecipazione popolare.

Il borgo presenta un ricco ed interessante patrimonio edilizio, con case dei sec. XV e XVI arricchite da particolari architettonici (architravi istoriati e bassorilievi) ed epigrafici, a testimonianza di un passato in cui l’allevamento ovino permetteva una vita agiata a numerose famiglie.

Nella parte alta di Spelonga si trova la chiesa dedicata a Sant’Agata, vergine e martire. La chiesa si presenta come una grande aula allungata, con il tetto a due spioventi, sorretto da capriate lignee a vista, risalenti al XV secolo. Gran parte degli arredi sacri e degli affreschi provengono dalla chiesa di Santa Maria in Collepiccioni, demolita nel 1933. l’altare maggiore, in noce intagliato, è del 1631 ed ha al centro una terracotta policroma di Sebastiano Aquilano del sec. XVI. La statua è un pregevole esempio di arte sacra abruzzese.

I due dipinti ai lati sono del sec. XVII. Un altro monumentale altare ligneo è sulla parete di destra, vicino all’entrata laterale. Gli affreschi quattrocenteschi sono di Panfilo da Spoleto e rappresentano, sulla parete di destra, la Madonna di Loreto (1483); a sinistra, San Bernardino (1482), Sant’Agata e San Lorenzo con gli strumenti del loro martirio, secondo la classica iconografia ispirata dalle rispettive Passiones, e tre sante.

Gli altri affreschi sono del ‘500 e sono riconducibili al grande Nicola Filotesio, meglio conosciuto come Cola dell’Amatrice.

Il “pezzo forte” che più degli altri caratterizza la chiesa parrocchiale di Spelonga, almeno per quanto concerne la tradizione del luogo, non è però un’opera d’arte, ma è un trofeo di guerra: sul lato sinistro dell’altare principale, ben inserita in una gigantesca cornice, campeggia una bandiera da combattimento appartenuta ad una nave turca che partecipò, nel 1571, alla battaglia di Lepanto.

La Chiesa della Santa Croce

A Pescara del Tronto, frazione di Arquata nota per la qualità delle sue acque che scaturiscono direttamente dalle pendici della montagna che sovrasta il paese, la chiesa parrocchiale è dedicata alla Santa Croce, e ad essa appartiene un’antica, splendida Croce Astile.

La chiesa, costituita attualmente dall’antico edificio sacro della Santa Croce e da quello attiguo della Madonna del Soccorso, fu eretta in epoca non specificata dai Cavalieri di Gerusalemme e rimase di loro proprietà fino al 1587, quando fu da essi ceduta al vescovo di Ascoli. Sulle pareti laterali dell’edificio sono situati due altari gemelli di legno, buon esempio di arte popolare.

L’altare di destra ingloba un affresco raffigurante la Madonna del Soccorso. Nell’immagine l’ampio mantello della Vergine viene tenuto sollevato da due angeli e protegge la folla dei fedeli sottostanti. La figura ripete un’iconografia piuttosto diffusa della Madonna e vuole porre l’attenzione sulla protezione che la Madre di Dio può offrire ai credenti. La dedizione dell’altare è dedicata ad un singolare episodio che si perde nelle nebbie del tempo, peraltro credibile, dato il contesto topografico del paese.

Così lo raccontano i paesani:
“…Tanti anni fa, in un tempo imprecisato, una frana minacciava Pescara. Fu organizzata una processione, in testa alla quale camminavano sette vedove vestite di nero e sette verginelle vestite di bianco, seguite dalla comunità dei fedeli. Il corteo si avviò verso la montagna in frana, preceduto dal sacerdote che guidava le litanìe. Quando la processione arrivò ai piedi del monte, la ghiaia che scivolava ormai da diversi giorni, si fermò miracolosamente ai piedi delle vergini: la gente del villaggio lo interpretò come un segno divino, legato all’intercessione della Madonna del Soccorso e volle dedicare a lei l’altare…”

Il pezzo forte della chiesa, tuttavia, è la famosa Croce Astile in essa custodita (le croci astili sono quelle croci preziose che venivano fissate in cima ad un’asta e che il crocifero porta in testa alle processioni sacre. La Croce di Pescara è la più antica croce in metallo (rame dorato lavorato a sbalzo) delle Marche e probabilmente è servita come modello per la simile, ma più recente, croce di Vezzano.

La croce ha al centro la figura di Cristo seduto benedicente e alle estremità grezzamente trilobate dei bracci sono sbalzati i simboli dei quattro evangelisti: in alto, l’aquila di San Giovanni, in basso l’angelo che simboleggia San Matteo, a sinistra il toro di San Luca e, a destra, il leone, che rappresenta San Marco.

L’oratorio della Madonna del Sole

All’interno dell’incasato della frazione di Capodacqua, il cui territorio confina con quello del comune di Accumuli, nel Lazio, esiste un autentico gioiello architettonico, l’oratorio a pianta ottagonale dedicato alla Madonna del Sole, attribuito, in origine, al noto artista Cola dell’Amatrice. Sul bel campanile a vela, la campana reca incisa la data 1558.

Il tempietto, voluto dalla comunità e costruito nel 1528, ha una pianta centrale e un alzato assai elegante che si riscontra in altri luoghi della zona appenninica dell’Italia Centrale.

La pianta ad ottagono ha chiaro valore simbolico: l’ottagono, figura mediatrice fra il quadrato (la Terra) ed il cerchio (il Cielo) raffigura la salvezza che la Vergine, tramite il suo Figlio, assicura al popolo dei credenti.

All’esterno la facciata è abbellita da un rosone, situato sopra l’ingresso principale, da iscrizioni e dalle stilizzazioni del Sole e della Luna. Proprio questi due simboli accentuano la valenza simbolica dell’edificio in quanto le stilizzazioni dei due astri legano l’immagine del tempietto e di Maria ad una cosmologia sacra dove la fede e la spiritualità sono in armonia con i ritmi della vita.

L’interno presenta affreschi del ‘500, attribuiti a diversi artisti: quello più interessante è sicuramente l’Assunzione della Beata Vergine, un’opera drammatica, scenograficamente complessa e riferibile alla cultura rinascimentale.

Sopra l’altare maggiore un quadro di un autore ignoto, la “Madonna tra le nuvole”, si ricollega ad un fatto avvenuto in epoche lontane.

In passato erano frequenti le liti tra Norcia e la comunità di Capodacqua per il possesso dei ricchi pascoli e dei boschi di Forca Canapine. Durante uno di questi incidenti la tensione era arrivata a tal punto che sembrava inevitabile il ricorso alle armi; per evitare scontri sanguinosi i contendenti si accordarono per interrompere lo scontro nel momento in cui ci sarebbe stato il primo caduto.

All’improvviso una fitta nebbia impedì il proseguimento della contesa. Dal lato dei nursini, la nebbia appariva come una nuvola impenetrabile mentre da quello dei capodacquani la Madonna del Carmelo, assisa in trono con in braccio il figlio, dava mostra della propria benevolenza.

Un soldato di Capodacqua approfittò della confusione e uccise uno di Norcia, ponendo fine alla tenzone e fissando così i confini delle rispettive competenze territoriali.

A ricordo dell’intervento miracoloso della Vergine, gli abitanti della frazione, a Luglio, celebrano una processione seguita da una grande festa popolare.

A Capodacqua si possono anche osservare caratteristici balconi di legno, costruiti in legno di castagno, assai resistente alle intemperie, occupano in tutta la lunghezza la facciata delle case esposte a solatio.

Le mensole, che aggettavano per circa un metro e sostenevano il pavimento di tavole, erano in tronchetti squadrati ed erano collegate al tetto mediante montanti, anch’essi di legno.

Questo tipo di balcone è una costruzione tipica dell’Alto Medioevo ed è, probabilmente, un’eredità diretta delle invasioni barbariche seguite alla caduta dell’Impero Romano.

La Chiesa di San Silvestro

Dall’ingresso della frazione di Colle, uno dei più elevati centri abitati permanenti delle Marche, abbarbicata su uno sperone roccioso, la chiesa dedicata a San Silvestro Papa domina il cimitero sottostante e tutto il territorio comunale.

La chiesa è di epoca rinascimentale ma probabilmente su un sito già consacrato in precedenza e sicuramente legato ad antichi culti naturalistici (la festa di San Silvestro è assai vicina, temporalmente, alla data del Solstizio d’Inverno).

Recenti restauri conservativi hanno accertato che i muri affrescati sono del sec. XVI: l’autore delle opere è Dionisio Cappelli, pittore assai attivo in zona, soprattutto nell’Amatriciano.

Nella chiesa di Colle l’artista ha dipinto, nell’abside rettangolare, numerose figure di santi, tra i quali spiccano San Silvestro ed il drago (il santo è seduto sul trono pontificale) e, a destra e a sinistra, San Paolo e San Pietro, Santa Caterina, con lo strumento del martirio, e una Madonna che allatta (figura peraltro danneggiata).

Sul timpano, una piccola crocifissione. Alla base, l’iscrizione recita: Questa facciata affatta spegnere don Vincentio Maffa de Calabria retore de dea eclesia 1511.

Le figure sono ben definite e ricche di particolari, specie quella del Papa assiso in trono, e con un ricco cromatismo.

A sinistra, in una nicchia sopra l’altare, era sistemata una statua in terracotta e cartapesta di una Madonna seduta con il bambino, di gusto popolare, realizzata alla maniera dei madonnari abruzzesi (Lalli).

La statua proveniva dalla chiesa di Santa Maria Chiarino, della quale abbiamo detto nel capitolo relativo alle vicende storiche: la devozione popolare voleva che la statua sparisse dalla nuova collocazione per riapparire, miracolosamente, nella località di origine.

Sul campanile, una campana bronzea con iscrizioni in caratteri gotici, datata 1389.

La Leggenda delle Fate

Pretare è conosciuto nell’Ascolano come il paese delle fate : una leggenda racconta, infatti, come secoli fa in questo luogo sorgeva un paese chiamato Colfiorito (comprendente le due attuali frazioni Pretare e Piedilama) dove regnavano pace e felicità.

Distrutto da un’enorme frana provocata dalla cattiva ed invidiosa maga Sibilla, esso tornò a vivere dopo molti anni grazie all’arrivo sul posto di pastori i quali, durante le lunghe notti, ricevevano la visita di bellissime fanciulle coperte da abiti che incarnavano la natura, il fuoco, il bosco, il prato, il vento, la neve, l’acqua.

In realtà le ninfe altro non erano che strane creature, al servizio della Sibilla, dalle sembianze femminili ma con orribili piedi di capra che, prima dello spuntar del sole, scappavano via per non rivelare la loro doppia natura. Un giorno un cavaliere dalle origini ignote, col nome di Guerrin Meschino, riuscì a sconfiggere i magici poteri della Sibilla così che le fate, libere dall’incantesimo, poterono sposare i pastori dando così origine al paese di Pretare.

Altre due leggende fanno da cornice al paese delle fate: la prima riguarda un episodio avvenuto durante un ballo, quando un montanaro si accorse delle zampe caprine delle fate; il suo silenzio fu comprato con la promessa di fargli trovare una moneta ogni volta che avesse messo le mani in tasca.

Nonostante il denaro accumulato fosse legato a quel patto, il pastore non seppe resistere e volle svelare il segreto della sua fortuna: però, dal momento in cui raccontò il fatto, anziché una moneta tirò fuori un pugno di terra…

La seconda leggenda è ambientata sul versante del Vettore che fronteggia il borgo di Castelluccio, situato su un’altura che domina la piana omonima.

Si narra in questo caso di una festa danzante che si prolungò più del dovuto cosicché la luce dell’alba sorprese le fate. La loro fuga fu così precipitosa che esse lasciarono sul Monte Vettore una striscia di terreno smosso, pieno di sassi rivoltati dalla loro corsa furiosa: è la Strada delle Fate.

Ogni tre anni, precisamente il 15 e 16 Agosto, la leggenda delle fate viene qui rievocata con una bellissima rappresentazione teatrale di impianto favolistico.
I personaggi in costume ci accompagnano nella grotta della magica Sibilla al seguito del cavaliere dalle origini ignote, il Guerrin Meschino.